Giocatore straniero

Clemente Roberto


ROBERTO CLEMENTE IL PIU’ AMATO

un ritratto di Ignazio Gori

 Vorrei avere un cuore azzurro

 concavo

 eterno.

Quello che ho

si stanca

duole.

(MARIA GUERRA)

Vorrei partire dalla fine, anzi, da un momento preciso, le World Series del 1971. In quella sua ultima apparizione nella serie finale del campionato, divenne il primo giocatore latino, di lingua spagnola, ad essere eletto Mvp (most valuable player) e a battere almeno una valida in tutte le sette gare della contesa, impresa che gli era riuscita già nel 1960. Inutile dire che per i los Pirates siano arrivati due titoli. Sono partito da questi episodi, ma potrei partire da qualsiasi momento, anche da ieri, da oggi, perché le leggende, come si dice, non muoiono mai.

Altra data, con l’orologio della Macchina del Tempo che scandisce il suo malinconico rintocco all’indietro. Nel 1972 i Mondiali si disputano nel caldissimo Nicaragua, un luogo dove il baseball è elevato a religione. Era il Nicaragua del sanguinario dittatore Anastasio Somoza e c’era stata una feroce resistenza popolare, più volte affogata nel sangue. La Nazionale Italiana di Chet Morgan è stretta in una tonnara di agguerrite squadre di tagliagole e pirati dei caraibi. Sono dure battaglie. Ma c’è un momento di luce, di luce assoluta, quasi un’apparizione. Sono le parole del campione del Nettuno Giorgio Costantini, scelto da Morgan insieme ad Argentieri per andare a incontrare il mito, il monumento del baseball. Ci sono alcune foto a testimoniarlo, foto che mi emozionano, soprattutto una, con Giorgio Costantini, in divisa Italia, in posa accanto al portoricano. Ogni foto che lo ritrae è iconica, sia che posi plasticamente in campo, sia che si trovi con i bambini, con la sua famiglia, con un semplice tifoso che magari si è fatto 3000 miglia solo per vederlo, toccarlo, stringergli la mano; ogni foto emana un’aurea particolare, una magia capace di travalicare i tempi, di unire popoli diversi, come una specie di collante popolare, di eroe zapatista, di reverendo misericordioso. Proprio lui, che pochi giorni dopo la fine del quel Mondiale – vinto da Cuba, ma a livello solidale attribuito ai nicaraguensi, in augurio di cristiana speranza – si era inabissato in mare, caduto con l’areo mentre tornava in Nicaragua per dar soccorso ai terremotati. Come dimenticarlo, il terribile terremoto del 1972, che risultò ancor più nero, con l’ultimo viaggio del martire dei Diamanti Elisi. Forse Lawrence Ferlinghetti avrebbe potuto, come ha fatto con Juan Marichal, elogiarlo con una lunga liturgica litania beat. O forse meglio ancora il poeta cubano Reinaldo Arenas, con una tragica, struggente, romantica poesia.

E chissenefrega se aveva solo 38 anni.

Se aveva elargito classe e amore a tutti.

Se aveva battuto 3000 valide, 1305 RBI e 240 fuoricampo.

Se aveva vinto 12 Golden Gloves e se a posteriori qualche distratto presidente yankee gli aveva conferito la Medaglia d’Oro del Congresso o la Medaglia Presidenziale della Libertà. Chissenefrega delle 2 World Series vinte, e di tutti i record e gli award di questo mondo. Della media in battuta di .317.

Dell’unico, storico, inarrivabile, metafisico, galattico walk-off inside the park Grand Slam di tutta la storia delle Grandes Ligas.

Chissenefrega di tutto … perché nulla vale più degli oceani di lacrime per lui versati, del ricordo ancora vivo, capace di emozionare, di ispirare film, libri, documentari, tributi solidali, eventi culturali interraziali.

Forse solo Fernando Valenzuela, leggendario lanciatore messicano, e Diego Armando Maradona, sono riusciti, al suo pari, a iconizzare lo spirito comune dell’America Latina. A mutare il “pelo malo in pelo bueno”, a rendere l’orgoglio un qualcosa di immortale. Chiedete al suo grande amico Manny Sanguillén, che ancora lo cerca, devastato, inconsolabile, come un pirata fantasma, sul fondo dell’oceano. Chiedete a Dock Ellis, a Pedro Martinez, a Willie “Big Dog” Stargell, a Luis Tiant … a tutti quelli che lo hanno amato. Anche in segreto. Chiedete a ogni singolo poveraccio emigrato a New York o Miami da Porto Rico. Ad Alex Rodriguez, a Jennifer Lopez, alle nuove generazioni di rapper latinoamericani. Chiedete ai giocatori della nazionale nicaraguense, che per sempre indosseranno il “21” sulle loro casacche, in onore del loro benefattore. Chiedete ad ogni volontaria dell’Esercito della Salvezza chi tiene sul comodino. Chiedete a loro chi è, cos’è stato, cos’ha rappresentato.

Tutti lo hanno conosciuto. Tutti lo conoscono. È sui murales di Pittsburgh, El Paso, Tijuana, Tokyo, Benares … Lo conosco anche io, ci parlo tutti i giorni. È lì, sul muro della mia stanza. Abbracciato a Giorgio Costantini.

Il sorriso più bello di sempre.

Semplicemente Roberto.

Roberto Clemente.

Esterno destro.

Da Porto Rico.

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