Giocatore italiano

Costantini Giorgio


Nato a Nettuno il 21-11-1949. Esterno gioca dal 1967 al 1984 con il Nettuno e dal 1986 al 1989 con la Roma. In 595 partite giocate ha prodotto 661 battute valide con 45 HR e 410 RBI per una media vita di .304. Con la casacca nettunese conquista due scudetti (1971 e 1973), la Coppa Campioni del 1972 e la Coppa Italia del 1970. Vanta 43 presenze in azzurro. Partecipa a tre mondiali, un intercontinentale e due europei, nell’ultimo, quello del 1979, conquista con l’Italia il titolo europeo.

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GIORGIO COSTANTINI

Una intervista di Ignazio Gori

Giorgio Costantini è un colosso. I suoi settant’anni gli scivolano addosso in un fascio di nervi che sprigionano energia. Basta solo guardarlo per ricaricarsi. Poi, quando sente la parola “baseball”, si apre magicamente la scatola dei ricordi …

Giorgio, tra te e il baseball c’è una storia d’amore che dura da molti anni …

È la storia della mia vita. Sin da piccolo sognavo di giocare nel Nettuno di Carlo Tagliaboschi. Lo andavo sempre a vedere durante gli allenamenti, le partite … era il mio idolo. Io sono nato in riva al mare e bastava attraversare la strada per entrare al parco di Villa Borghese dove c’era il primo “diamante” del Nettuno. Un luogo folkloristico, mitico, dove il dugout per molti anni era formato dalla carcassa di una vecchia autoambulanza rubata.

Carlo Tagliaboschi e Giulio Glorioso sono stati i primi grandi lanciatori italiani.

Senza dubbio. Tagliaboschi era un mito, e il fatto che fosse mio cugino carnale, ha fatto sì che la passione per il baseball mi entrasse nelle vene da subito. Carlo era un tipo sanguigno, esotico, con un fisico scultoreo, riccio, scuro di pelle, trasmetteva quasi soggezione e poi lanciava molto veloce per l’epoca. Era un tipo rustico anche; ricordo che dopo la partita o gli allenamenti andava nel suo orto a lavorare. Aveva una barca in società con mio padre. Erano entrambi molto appassionati di mare. Mio padre è stato un grande palombaro, riusciva a scendere fino a 40m sott’acqua, anche lui un fisico invidiabile … uomini dalla tempra forte, d’altri tempi.

Possiamo dire che Carlo Tagliaboschi sia stato il primo vero idolo dei tifosi nettunesi di baseball …

C’era sempre molta gente alle partite, tutti stipati attorno al diamante, seduti a terra, quasi vicino alle linee di gioco. Era difficile per le squadre ospiti giocare lì, c’era un clima infuocato, la gente urlava, inveiva, il terreno quasi sconnesso, ed era difficile persino battere un fuoricampo. Ma i nostri giocatori volavano su quella terra ed erano i nostri eroi. Noi eravamo poveri, giocavamo in strada come gatti randagi, tra la polvere, con tavole di legno e sassi, un po’ come i ragazzini a Cuba. Eravamo molto furbi e cercavamo sempre di raccattare le palle che si perdevano nel parco. A volte per non farci scoprire le nascondevamo, per poi ritrovarle fradice, o divorate dai topi. Facevamo di tutto per giocare a baseball e ogni ragazzino sognava un giorno di indossare la stessa maglia di Tagliaboschi, di Macrì, di Masci … il calcio per noi non esisteva.

E poi è successo che tu l’hai indossata davvero quella maglia …

Il mio primo allenatore è stato Fausto Camusi. Parlava bene inglese ed era il tramite di Horace McGarity. Quando avevo sui sedici, diciassette anni, ero considerato tra i più promettenti della squadra juniores. All’epoca non era facile essere chiamato in prima squadra. Era un circuito chiuso, soprattutto i titolari sembravano inamovibili. Solo ogni due o tre stagioni i migliori promettenti venivano convocati in prima squadra. Fui chiamato nel 1967, insieme a Carlo Rosi, detto “Charlie”. Con lui avevo vinto lo scudetto juniores, giocando sia in prima base che lanciatore.

Quindi non hai sempre giocato esterno …

No. Ma non era importante la posizione, bensì la preparazione. Quando venivi chiamato dovevi farti trovare pronto. A Nettuno non c’era stato nessuno ad insegnarci i fondamentali. Avevamo fatto tutti da soli. Eravamo grezzi, ma avevamo passione, entusiasmo, cattiveria agonistica e quel pizzico di “ignoranza” che ci permetteva di farci rispettare ovunque andassimo a giocare. A Parma, a Bologna, avevano preparatori tecnici e atletici, noi non li avevamo, ma in campo eravamo degli squali. È stata dura i primi tempi in prima squadra? C’era una sorta di gerarchia interna. Si doveva fare la gavetta e anche a me è capitato di portare le mazze e di starmene al posto mio. Funzionava così. Mi ricordo la mia gara d’esordio, un Nettuno-Grosseto, da esterno. All’epoca c’erano dei grandi lanciatori. Ricordo Mike Romano del Rimini. Un grande lanciatore. La palla nemmeno la vedevo. Erano le partite i nostri veri allenamenti e dopo qualche turno in battuta iniziavi a farci l’occhio e per gli avversari erano dolori. Non avevamo la macchina lancia-palle, era Giampiero Faraone che fruiva questo servizio e non era certo la stessa cosa. I martelli di quella squadra, per anni, siamo stati io e Bruno Laurenzi.

In venti anni col Nettuno hai vinto due scudetti, nel 1971 e 1973, la Coppa dei Campioni nel 1972 …

Lo scudetto del 1971 fu il decimo, quello della “stella”, una grande soddisfazione per tutta la città, mentre quello del 1973 è stato l’ultimo prima del “grande digiuno” durato diciassette anni. Dei venti anni con la maglia della mia città non rimpiango niente, anche se ci sono stati anni duri, non c’erano soldi, non c’era un vero stipendio, mentre nei club del nord la situazione era ben diversa. Per non parlare degli sponsor, la Glen Grant ci dava un decimo rispetto alla cifra che la Montenegro dava al Bologna. Il primo rimborso lo presi nel 1971, 5omila lire al mese. Non credo di aver tradito nessuno se a fine carriera, nel 1985 e 1986, ho vestito la maglia della Bassetti Roma. Vennero anche Tony Lonero e Bob Mariano e mi levai la soddisfazione di vincere due volte col Nettuno.

Ci racconti il tuo passaggio in Nazionale?

I Mondiali in Nicaragua del 1972 furono duri, visto che eravamo tutti italiani, senza oriundi, i quali sarebbero tornati solo in occasione dei Mondiali del 1974, negli Stati Uniti. Le squadre americane erano fortissime. Un’altra categoria. Ricordo il nostro manager Chet Morgan, severo come un sergente dei Marines, che nel 1972, dopo l’ennesima sconfitta ci costrinse a correre a notte fonda e a luci spente nello stadio. Una faticaccia. Non accettava un simile affronto. Urlava: “Vi piacciono gli spaghetti? Allora correte, correte …”. Sembrava il sergente maggiore di Full Metal Jacket, ma era un grande allenatore, temprato, attento ai fondamentali e pretendeva un atteggiamento fiero e aggressivo. Faccio un esempio. Durante Italia-Panama scoppiò una rissa. Solo io, Bruno Laurenzi e “Chico” Passarotto fummo pronti alla battaglia. Morgan diventò furibondo. Disse che in caso di rissa, come vuole la regala non scritta, tutti devono gettarsi in campo ad aiutare e difendere i propri compagni, chi non lo fa non merita di giocare. Anche a Cuba nel 1971 non fu facile. I cubani non li battevi nemmeno se truccavi l’incontro. Ricordo Elpidio Mancebo (1), un fenomeno, fece un fuori-stadio. Non avevo mai visto una battuta del genere!

Però la Nazionale azzurra ti ha riservato anche belle soddisfazioni …

Vincemmo gli Europei del 1979 che si giocavano a Trieste e Ronchi dei Legionari. Ero l’unico italiano “puro”, gli altri erano oriundi, su tutti Sal Varriale, che batteva forte. Scherzando, mi fecero recitare una specie di “giuramento”. Ma io non lo trovai così divertente … Comunque era una grande squadra. Qualche anno prima, nel 1973, nel corso della prima edizione della Coppa Intercontinentale, disputata a Parma e Bologna, avevamo per la prima volta strappato agli americani una vittoria. Conservo ancora gelosamente la medaglia Fibs che commemora l’evento. Il fuoricampo decisivo lo fece Vic Luciani, gran bel giocatore. Gli americani erano giovani, tutti “collegiali”, ma vennero per vincere. Trovarono invece un grande Giappone, che vinse il torneo e anche noi ci togliemmo delle belle soddisfazioni.

Circola sul web una tua leggendaria foto con Roberto Clemente. Io stesso ne ho scovato una copia nel mercatino di Porta Portese, incorniciata da qualche sconosciuto …

Quella foto scattata da Ambrosioni è diventata ormai un “santino”. C’è gente che la vede e mi chiama dagli Stati Uniti, ovunque. Fu per caso che incontrai Clemente, un monumento del baseball, anche se noi all’epoca ne sapevamo poco. L’ho ripetuto tante volte ma è una cosa della mia vita che al solo ripensarci mi emoziono. Fu Chet Morgan che a Managua, durante i Mondiali del 1972 portò me e Argentieri da Clemente. Lui era nello staff della nazionale portoricana e non poteva giocare in quanto professionista della Mlb. Ci fece vedere alcune sessioni difensive e di rilancio. Era agile come una pantera e aveva un braccio che sembrava un cannone. Impressionante! Poi ricordo che mentre batteva, spedendo ogni volta la palla lontanissimo, ripeteva che a lui il fuoricampo non piaceva molto, gli piaceva di più battere lungo, provare a correre, giocare … un agonista fenomenale. Non lo dimenticherò mai. Tuttora, ogni tanto, rivedo i suoi highlights su youtube e sogno …

Hai altri miti nel baseball americano?

Mi è sempre piaciuto Reggie Jackson. Un vero martello.

Come è cambiato il baseball rispetto a quando giocavi tu?

È ovvio che il baseball di Romano Lachi, di Tagliaboschi e di Glorioso era un altro mondo, ma anche rispetto a quando giocavo io è cambiato molto. Era un baseball più ruspante. Una volta un arbitro si presentò ubriaco. Ci sono state risse clamorose e boicottaggi, trasferte “fantozziane” che solo a raccontarle mi viene da ridere. Ora c’è più professionalità, ma sicuramente, purtroppo, molta meno passione. Lo scudetto del 1973, quello con Claudio Scerrato, Giampaolo Mirra, Enzo e Alfredo Lauri, Pietro Monaco, come detto fu l’ultimo per la nostra città per lunghi anni. Nemmeno grandi campioni come Clemente Sanders, Eddie Oliveros, Joe Del Sardo, Steve Rum – che regolarmente arrivavano ai primi posti della Serie A per media battuta – hanno potuto supplire a quel gap che soffrivamo contro le squadre del nord. Ci mancava sempre quell’elemento in più per vincere e abbiamo collezionato molti secondi posti. Eppure c’era qualcosa che rendeva quegli anni, quel baseball speciale, forse l’attenzione della gente …

Mi sembra di percepire un po’ di malinconia nel tuo racconto …

Non voglio essere frainteso. Io sono molto fiero e felice della mia carriera. Ho giocato fino a 39 anni. Il mio top stagionale in battuta è stato di .399 e c’erano fior di lanciatori. Mi è capitato anche di partecipare ad una puntata dalla Domenica Sportiva …

Raccontaci.

Dopo aver vinto a Milano nel 1972 la Coppa dei Campioni contro la squadra di casa – Gigi Cameroni, Chico Passarotto, Ivan Cavazzano … - fui invitato in trasmissione da Bruno Beneck, che all’epoca ne era il direttore. Ero un po’ emozionato, non sapevo bene che dire. Alfredo Pigna, il conduttore, promise di farmi una domanda e poi all’improvviso la cambiò. Che ridere … C’erano anche Mennea e altri campioni sportivi italiani. I miei famigliari furono felici e sorpresi di vedermi in tv. Fu una grande vittoria quella contro Milano, feci anche un fuoricampo. Ecco, nonostante queste vittorie e traguardi, debbo dire che molti campioni del passato a Nettuno sono stati un pochino bistrattati. Io stesso non ho mai ricevuto premi particolari o riconoscimenti. Per il traguardo delle 500 valide in Serie A sono stati i tifosi a regalarmi un affettuoso omaggio. Ci vorrebbe una maggiore cultura del ricordo, verso chi ha contribuito a fare grande questa squadra. A portare alto il nome di questa città.

Cos’è per te il baseball?

Molto. Moltissimo. Un mare di ricordi … Sanders, che mi raccontava i suoi incubi sulla guerra del Vietnam … Earl Hayes … la passione che ho trasmesso a mio figlio Marco, lanciatore di Serie A che da ragazzino aveva suscitato l’interesse degli Atlanta Braves … i grandi Sparta Rotterdam, che sembravano invincibili e poi si sono sciolti sotto il solleone di Nettuno … e molto altro. Io sono sempre stato un vero malato di baseball, come quasi tutti quelli della mia generazione qui a Nettuno. Ma se devo scegliere un singolo ricordo che fotografa questa “febbre”, scelgo un ricordo legato a mia mamma. Faceva la sarta e fu lei a cucirmi il primo rudimentale guantone quando iniziai a giocare in strada. Alla luce di tutte le soddisfazioni e le belle vittorie che ho ottenuto, potrebbe essere questo il ricordo più azzeccato per immortalare cosa sia stato ed è per me questo pazzo, meraviglioso gioco.  

È proprio vero. Chi ama il baseball è diverso da tutti gli altri appassionati sportivi. È una passione che non ti lascia, mai. È una malattia. Giorgio Costantini ne è un esempio viscerale.

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(1) Prima base, classe 1944, nativo di Santiago di Cuba. In 17 anni nella lega cubana Mancebo ha tenuto una media al box di .282 con un fielding % di .982. Ha battuto più di mille valide nella Serie Nacional de Bèisbol, cifra superata solo da Roberto Ramos, Wilfredo Sanchez e Eulogio Osorio.

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