Stampa & Letteratura

John Fante e il baseball come sogno


John Fante e il baseball come sogno

Una riflessione di Ignazio Gori

Con una intervista a Matteo Cacco

L’unica forza sta nell’immensità della nostalgia. (TERESA DI LISIEUX)

Ho sempre cercato di intuire cosa ci fosse dietro l’amara ironia di John Fante (Denver 1909 – Los Angeles 1983). Forse una palpitante sostanza emozionale, meno favolistica rispetto a certi libri di Jack Kerouac (Il Dottor Sax, Tristessa) che riempie una realtà intesa come precario equilibrio, come ricerca spasmodica di qualcosa.  Quello che colpisce di questo autore è una umiltà provocante e allo stesso tempo una costante, irresistibile voglia di ribaltare la propria condizione: di povero, di figlio di immigrati italiani in America, di sfigato, persino – e lo vedremo nel romanzo centrale della sua opera, quel Chiedi alla polvere ormai stracult – di scrittore mediocre, di sceneggiatore rimediato.  Tante volte, parlando con amici appassionati di letteratura, o con sconosciuti avventori nei vari festival, ho sentito dire che John Fante occupa appena un ricordo, anche se spesso indelebile, legato a letture giovanili. Credo invece fermamente, che la ripresa delle sue opere tutte, la sua attenta rilettura in età matura, possa far scoprire molto altro che il fervore dell’adolescenza può aver inevitabilmente offuscato, facendo prevalere magari solo una sagace ironia, tra le righe.  In libri come Aspetta primavera, Bandini e soprattutto in 1933. Un anno terribile lo sguardo spietato di John Fante, alias Dominic Molise, sulla sua miserevole condizione assume toni epici, in special modo quando l’ironia si mescola all’amarezza quotidiana, un distillato capace di identificare una intera generazione di immigrati. In 1933, pubblicato postumo nel 1985 dalla moglie di John, Joyce Smart (Placer County 1913 – Malibù 2005), troviamo l’esaltazione giovanile di un ragazzo del Colorado che sogna di raggiungere il ritiro primaverile precampionato dei Chicago Cubs e di diventare un giorno un giocatore di baseball professionista. Questo è l’elemento favolistico, il sogno, ma a questo sogno si contrappone inevitabilmente l’ostacolo reale, tremendamente reale, della realtà, ovvero la mancanza di denaro per il viaggio, i problemi famigliari, il rapporto con i genitori, in particolar modo con suo padre – elemento centrale dell’opera fantiana – che lo affliggono, ma che in qualche modo ne vitalizzano l’emozione, l’estrema umanità, la solidarietà di tutti quelli che sono nella sua condizione: tutti gli “Arturo Bandini” o i “Dominic Molise” del mondo che sognano, in barba al destino, di diventare degli eroi, dei campioni di baseball o scrittori da bestsellers.

Il giovane protagonista di 1933.Un anno terribile si illude pateticamente di evadere dalla realtà, credendo che il suo braccio sia quello di un potenziale asso del monte di lancio. L’illusione di avere la stoffa del vero lanciatore arriva fino al punto da creare nella mente del protagonista un simpatico alter ego, chiamato appunto Il Braccio, oggetto di veri e propri colloqui, intimi o tecnici.  Quelle di Dominic Molise rivolte al suo braccio – e di rimando al lettore che dopo poche pagine già non può fare a meno di lui – sono parole di preghiera, preghiera pura. Non c’è altro modo per descriverle, d’altronde il giuoco del baseball, a Cuba, in Giappone o negli Stati Uniti, ha un ruolo sociale assunto alla religione, l’unica religione – con cattolico senso di colpa: “Non avrai altro Dio all’infuori di Me … e del Baseball!” -  capace di infondere speranza in lui e al suo miglior amico, Ken Parrish, il quale è stato espulso da un liceo di Boston perché saltava le lezioni per andare a vedere le partite dei Red Sox al mitico Fenway Park.  Basterebbe questo particolare per poetizzare il quadro narrativo. Ma il baseball non è in questo romanzo solo fonte citazionistica, bensì un fantasma, a volte benigno altre beffardo, che aleggia dietro le sorti dei due compagni di lanci e di merende.  È l’unica ragione di vita, l’unica via di fuga dall’oppressione della realtà provinciale, dalla triste aspettativa per Dominic di non essere destinato a nient’altro che alla cazzuola e alla betoniera, esattamente come quel rozzo di suo padre, emigrato abruzzese da un paesino lontano, ma sacro nella sua arcaicità, come Torricella Peligna, più volte citata nel libro, a velare un orgoglio tutto italiano.  Avranno una squadra di baseball a Torricella Peligna?  Dominic non ne ha la più pallida idea. Per suo padre esiste solo il lavoro di muratore, la fatica, e nient’altro. Ma Il Braccio lo salverà, lo porterà lontano da lì, dagli inverni lunghi e gelidi di quel Colorado abruzzese, gli farà guadagnare un mucchio di verdoni, sposerà una strafica come Clara Bow, Norma Shearer, Ginger Rogers o Carole Lombard …  

Anche in Aspetta primavera, Bandini, Fante/Arturo Bandini si dichiarava, anche se più velatamente, un potenziale giocatore di baseball, promettendo a Rosa Pinelli – la ragazzina anch’essa figlia di immigrati italiani di cui è innamorato pazzo – che un giorno sarebbe stato un esterno titolare degli Yankees, capace di scoccare un homerun alle World Series. Ma in 1933.Un anno terribile è più marchiata la consapevolezza del protagonista di avere talento, di potercela davvero fare, e il confine tra sogno e realtà è davvero labile, quasi impalpabile.  Ma può, come gli rimprovera suo padre, quasi sfiduciandolo, un poveraccio come lui diventare un campione illuminato di baseball?  Perché no?! Dice lo stesso Dominic: “Babe Ruth era orfano, Ty Cobb un povero campagnolo della Georgia”. Lo stesso Amadeo Giannini, italiano come suo padre, era partito dal nulla per diventare il fondatore della Bank of America, il Santo Patrono di tutti i nuovi poveri, il Salvatore dei paisà italoamericani! Oh Santa Teresa, perché non lui?!   Per non parlare poi di tutti gli italiani che avevano raggiunto le Major Leagues: Joe Di Maggio, Tony Lazzeri, Frank Crosetti, Babe Pinelli, Lou Fonseca, Ron Pellegrini, Vic Monte, Sam La Torra, Boots Zarlingo …

E perché diavolo, con quella sorta di braccio miracoloso che si ritrovava, non lui? C’era un Dio, forse il Dio di suo padre, che non lo voleva? Ah, forse è solo illusione giovanile. Solo cinquanta sporchi dollari servirebbero per arrivare in California e farsi provinare dagli allenatori dei Chicago Cubs. Il suo braccio potente non lo avrebbe tradito. Ne era più che sicuro. Ma dove trovare quei fottuti 50 dollàri? La “pietas” che Fante costruisce intorno a questa cifra-confine è ossessionante. Diventa una metafora per capire il cuore e la volontà di Dominic, i segreti del suo carattere, teneri e derelitti, entusiastici e grotteschi, a volte persino crudeli, ma mai volgari.  Fante aveva delle riserve su questo romanzo e in vita non volle pubblicarlo. Forse che il sogno naufragato del baseball del giovane Dominic Molise era lo stesso dell’autore? Gli costava troppo, a livello emozionale, veder pubblicato questo libro? Forse. Continuò comunque a lavorarci per molti anni, scusandosi anche con gli editori, ma forse più con se stesso, segretamente, senza mai decidersi sulla pubblicazione. Deve aver amato molto il Fante-bambino quel sogno, deve averlo cullato a lungo, quel sogno così squisitamente “americano”, e questo romanzo, puro come un diamante, doveva pulsare per lui come una ferita aperta.  O forse il gioco del destino, e della fantasia, è solo uno scenario immaginario da poter essere solo tramutato in letteratura? O se ancora la soddisfazione del desiderio sia non nel raggiungerlo ma trovare soddisfazione nell’insoddisfazione stessa? Nella poetica commiserazione di accettarsi? Anche Mark Twain e Ernest Hemingway (come se nota in Il vecchio e il mare) amavano il baseball, ma in Fante costituisce le basi di una “speranza” alternativa. Lo sport in generale – basta vedere anche Osvaldo Soriano col futbòl – essendo parafrasi della vita, non può che fungere da ponte emozionale tra due sogni collegati: quello di essere e quello di poter essere. John Fante lo sapeva bene.

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Nello scrivere 1933. Un anno terribile Fante ha compiuto a mio avviso un piccolo miracolo, sintetizzato da un finale magnifico, forse il finale più bello di tutta la sua opera letteraria, una specie di commossa preghiera che dallo strettamente personale si riversa a messaggio universale.  Dominic infatti rinuncia al suo viaggio in California, per recarsi dai Cubs, verso il suo sogno, per riscattare la betoniera di suo padre, strumento prezioso di lavoro, spendendo tutti i cinquanta dollari avuti dopo mille traversie. E non è forse questo un semplice gesto che vale una vita intera?  “Presi il rotolo dei soldi e tornai alla betoniera. Era ridotta male e molto rovinata, come le mani di mio padre, era una parte della sua vita, così stranamente antica, come se fosse venuta da un paese lontano, da Torricella Peligna. L’abbracciai e la baciai, e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell’epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, avrei dovuto farcela.”

Extra innings:

9 domande a Matteo Cacco  

Matteo Cacco è project-manager di ricerca presso l’Università di Colonia, appassionato e innamorato della letteratura italoamericana. In precedenza ha lavorato come ricercatore nella stessa università. Ha conseguito il dottorato di ricerca ponendo al centro dei suoi studi l’impegno cinematografico e letterario di John Fante. Ha pubblicato ed è stato relatore a conferenze sul rapporto tra interculturalità e letteratura, sul realismo magico sudamericano, sul multiculturalismo nella letteratura di John Fante e sul rapporto degli “scrittori-sceneggiatori” con il cinema americano classico. Oltre a John Fante, Matteo ha concentrato, e sta concentrando, i suoi studi su Pietro di Donato e Pascal D’Angelo.

Cosa ti sorprende di più del mondo di John Fante?

MC. La narrazione della quotidianità; una narrazione solo in apparenza semplice ma, per dirla alla Fante, “Piena di Vita”. Una realtà che racchiude al suo interno un'altra dimensione dominata da introspezioni psicologiche e riflessioni sull’identità degli esseri umani e sull’importanza del ruolo che esse ricoprono nella società, specialmente nell’ambito dell’integrazione. Fante, attraverso un linguaggio diretto e senza filtri, allo stesso tempo elegante e verista, è stato in grado di raccontare la vita degli immigrati di Bunker Hills e della società dei bassifondi californiani, rendendoli degli eroi: un’eroina messicana come Camilla che solamente il ricordo poteva rendere immortale o i filippini del progetto, mai completato, di “Little Brown Brothers”. Fante, sebbene il suo alter-ego Bandini cresca con l’età e diventi maturo, rimane sempre la persona che spera un giorno la primavera possa arrivare per poter ritornare a giocare a Baseball. In fondo, il Baseball è la metafora del sogno americano e, in particolare, di quel sogno di milioni di immigrati italiani che speravano non solo di trovare un futuro migliore negli States, ma di essere accettati. Sebbene abbia raggiunto la sua massima popolarità dopo la morte, considero John Fante il Joe Di Maggio del baseball: infatti per me il talento e la possibilità di sorprendere non possiedono nazionalità e confini, ma sono universali; lo dimostra il fatto che due dei più talentuosi americani nella letteratura e nello sport, come John Fante e Joe Di Maggio, sono figli di immigrati italiani. 

Nel romanzo 1933. Un anno terribile, come definiresti il “sogno” di fuga del giovane Dominic Molise? MC. Un sogno che suona quasi come un grido d’aiuto: “non vedete il mio talento, sono il miglior lanciatore ma non posso mostrarlo alla California perché sono povero!”. Tuttavia, allo stesso è anche un invito a non darsi per vinti e non alzare quella bandiera bianca che certifica l’abbandono ufficiale dei nostri sogni. Il Baseball è una metafora del sacrificio della vita di coloro che avevano radici straniere; Dominic Molise è il miglior lanciatore della regione, ma il futuro non sembra essere nelle sue mani, ma nel prezzo che egli deve pagare per essere figlio d’immigrati italiani che, oltre al talento, gli hanno dato anche una povertà insormontabile; una povertà, come detto, collegata a quella della sua famiglia, e dalla quale scappare perché questa non gli permette di esprimere le proprie potenzialità e lo rendeva diverso da quelli che lui vede come i ragazzi americani. Per concludere e rispondere alla tua domanda: è un sogno che, se analizzato profondamente, mi riporta alla realtà americana del tempo che aveva alienato coloro che non appartenevano agli WASP.

Nell’ambito dell’edizione 2021 del John Fante Festival, presso Torricella Peligna (Chieti), hai parlato di realismo magico sudamericano nell’opera fantiana. Ci puoi spiegare brevemente?   

MC. Si tratta di una letteratura che fonda la sua ragion d’essere nella filosofia del ricordo e di una costruzione di una realtà che permette di sentirci a nostro agio. Pensa al romanzo “The Road to Los Angeles”, e vedrai come il libro sia per lunghi tratti ambientato nella psiche e nell’immaginazione del protagonista: si trasforma in un campione olimpionico, nell’imperatore del regno dei granchi e in Arthur Banning (personaggio del suo primo romanzo deriso dalla madre e dalla sorella). Un modo per trovare un momento di sollievo da quella realtà che puzzava di pesce e di quel lavoro al conservificio. Inoltre, vorrei portarti alla mente la fonte d’ispirazione che la figura del nonno di Gabriel Garcia Marquez (uno dei maggiori esponenti del realismo magico) ha rappresentato per i suoi racconti; quest’anno, durante il festival, abbiamo sentito da Victoria Fante come il nonno di John, Giovanni, fosse solito raccontare delle storie al figlio. Probabilmente leggende e racconti sulla vita in Abruzzo che hanno reso Torricella Peligna un posto magico, protetto dalla memoria degli immigrati che vivono di quei ricordi per ritrovare la felicità in quell’America che, come ci racconta Di Donato, dava un prezzo alla vita degli immigrati italiani, ovvero un dollaro l’ora; infatti, quella era la paga per un’ora di lavoro nei cantieri dove si rischiava continuamente la vita. Inoltre, come vediamo nel prologo di “Chiedi alla Polvere”, è proprio il ricordo di Camilla attraverso la sua storia nel romanzo a renderla immortale; Camilla si erge ad essere la rappresentante della componente sudamericana in California, che, senza nessuno che si ricordasse di lei e della sua bellezza (Bandini la chiama “principessa Maya”), rischiava di essere coperta dalla polvere di Los Angeles. Una polvere portata dalla disperata ricerca dell’identità americana e di quel sogno di poter ottenere fortuna.

Tra il Fante civile e/o religioso, che toni assume secondo te la speranza cristiana nella sua opera? È solo di tipo metaforico?

MC. Fante è una persona estremamente spirituale. Quella che tu chiami “speranza cristiana” (immagino tu intenda verso il prossimo), io la chiamerei “pietas”, da non confondere con la traduzione italiana di pietà. Si tratta di un rispetto per le sorti di coloro che erano posti alla base della società californiana: così è da leggersi la profonda devozione di Fante per le figure dei santi e di personalità come quella di Madre Cabrini.  Tanto che, infatti, Fante aveva scritto, insieme all’amico Petracca, una bozza per una sceneggiatura su Madre Cabrini e aveva realizzato il film “The Reluctant Saint” (ovvero la vita di Giuseppe da Copertino). Non si tratta quindi di una metafora, ma di una profonda e convinta spiritualità: Fante sapeva che la fede era infatti un ponte che poteva permettere agli immigrati italiani di riconciliarsi con le proprie tradizioni, come ad esempio succede nel caso delle processioni per i santi.

Quale lato del Fante-uomo ritieni più ambiguo o misterioso?

MC. Credo che Fante non abbia ambiguità o misteri, bensì abbia il grande pregio di presentarsi al lettore dicendo “eccomi, sono io, prendere o lasciare”. Non è un caso che coloro che si appassionano a Fante, abbiano cominciato con un romanzo e poi, tutto d’un fiato, abbiano letto tutta la sua produzione letteraria. Fante ti prende per mano, ti porta nel suo mondo e tu senti la necessità di viverlo con i suoi personaggi. Non te ne rendi conto perché ti trasporta leggermente e soavemente nel suo mondo, ti fa sedere e ti invita ad osservare i suoi personaggi. E io, lettore, li ho osservati attivamente, tifando per Dominic e per Arturo, costretti a soffrire perennemente.

Mi piace pensare che dietro a quel braccio che lancia la pallina non ci sia Dominic Molise, ma ci siamo tutti noi che speriamo un giorno il personaggio possa diventare il prossimo Joe Di Maggio. Non solo, in quel lancio c’è tutta la forza delle vite degli immigrati

Fante non ha ambiguità: parla la lingua delle persone di Bunker Hills e della sua infanzia in Colorado con un’energia che annulla qualsiasi dubbio il lettore possa avere sulla veridicità della narrazione. Il mistero, semmai, può essere come Fante sia riuscito a raggiungere una forma narrativa in grado di parlare a tutte le generazioni, dai giovani agli adulti. Ma in fondo, potrei chiederti come faceva Joe Di Maggio ad essere il migliore: probabilmente tu mi risponderesti che era un dono di Dio. Ecco, mi piace pensare che a Fante sia stato dato il compito di fare innamorare alcuni di noi della sua scrittura e dei suoi temi, un dono che le divinità hanno concesso a pochi. 

Molti non conoscono le sceneggiature di Fante. Da Il Re di Poggioreale fino a Cronache di un convento … cosa ne pensi del Fante hollywodiano?   

MC. Credo che le leggende sul Fante hollywoodiano siano moltissime: la più comune è che lui odiasse la motion picture hollywoodiana e scrivesse solo per soldi. È innegabile che il lavoro di sceneggiatore permettesse una stabilità finanziaria a quegli scrittori che sognavano il “grande romanzo americano”, ma è pur vero che Hollywood al tempo poteva vantare la presenza dei migliori scrittori della East Coast, come Fitzgerald e Nathanael West. Rimanere in quel circolo significava restare nell’élite della cultura californiana. Inoltre, andrebbe riconsiderata la leggenda “dello scrittore in catene”, ma qui mi dilungherei troppo; fatto sta che Fante viene inserito, secondo me erroneamente, all’interno di questa categoria. A coloro che vedono in Fante uno “scrittore in catene” negli studios vorrei ricordare che Fante aveva una famiglia da mantenere a Los Angeles. Credo sia necessaria una revisione che contestualizzi oggettivamente le lettere che parlano del suo lavoro hollywoodiano.  Tuttavia, risulta chiaro come la scrittura visuale della sceneggiatura abbia influenzato la scrittura dei romanzi di Fante. Fante non era uno sceneggiatore qualsiasi, ma un eccellente sceneggiatore: lo dice Dmytryk parlando della sua collaborazione con l’autore italoamericano per “The Reluctant Saint” (in Italia uscito come “Cronache di un convento”, 1962). Non solo, la bravura di Fante negli scripts lo porta ad ottenere un incarico per un progetto mai completato con Orson Welles, “It’s All True”. Un progetto che avrebbe non solo dovuto raccontare la storia di “My Friend Bonito” ma anche quella “Love Story” dei suoi genitori che Fante aveva definito una delle più belle storie hollywoodiane che sarebbero state scritte. Fante è sempre stato sottovalutato nel cinema perché le sue collaborazioni sono sempre state rivolte alla realizzazione di “B-Movie”; ciò nonostante in “Full of Life”, “The Reluctant Saint” e “The King of Poggioreale” (“Il Re di Poggioreale”, 1961) vediamo l’impronta artistica del Fante cinematografico: l’identità italoamericana, la spiritualità e il sogno americano. Per metterla in termini sportivi di baseball, la vita di Fante si è divisa in tre innings: il romanzo, il cinema a partire dal 1932 e un ritorno al romanzo nell’ultimo periodo della sua vita. L’inning del cinema è durato circa 30 anni; sarebbe ingiusto dimenticarlo e bollarlo come un’ombra del suo talento di romanziere. Tutti gli innings sono importanti, perché tutti rappresentano un pezzo della sua esistenza e del suo carattere.

Se dovessi scrivere in tre concetti il “Vangelo” di John Fante, quali key words sceglieresti?

MC. Il sogno americano, la realtà degli immigrati… e il “Cagnolino Rise”.  

Leggendo tutto Fante, c’è stato un motivo che ti ha fatto interrompere la lettura e dire: “Stavolta mi hai deluso”?

MC. Ho sempre voluto immaginare un Arturo Bandini felice, che sia riuscito a raggiungere la sua pace identitaria e si sia ricongiunto alla sua carriera di scrittore. Fante lascia al lettore immaginare il futuro, e io me lo immagino a giocare a baseball con i figli la domenica dopo aver trascorso la settimana a scrivere storie e romanzi. Non sono un romantico, ma con Fante, non so perché, lo divento, soprattutto nel guardare al futuro. La delusione è un sentimento così passeggero che rimane giusto il tempo di un lancio in una partita baseball: il lanciatore pensa al lancio che sta per effettuare, sa che durerà pochi secondi, giusto il tempo di seguire la pallina con gli occhi. Pochi secondi e, a prescindere dal risultato, con la mente è già al prossimo lancio. Poi un giorno, quando il corpo non lo permetterà, potrà vivere di quei ricordi, quei lanci memorabili o tristi, e renderli immortali attraverso l’immaginazione; un po' come fa Fante..

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