Personaggio

Ottino Mario (Max Ott)


MAX OTT IL PIONIERE DEL BATTI&CORRI

di Ignazio Gori

Nato a Mazzè Canavese, provincia di Torino, l’8 Aprile 1905, da padre sarto e madre levatrice, Mario Ottino, per tutti Max Ott, il più classico “americano d’Italia”, è considerato il pioniere, il padre del baseball italiano.

Suo nonno era guardiano dei Conti di San Marzano, e – parole sue – “iniziai a rubare l’uva della sua vigna poco lontano dal famosissimo castello dei Cavalieri di Malta”. Come inizio di storia romanzesca non è mica male. All’età di appena quattro anni, quando suo padre morì, lo zio prete lo portò con sé in America, a Elizabeth, nel New Jersey, dove il sacerdote teneva a parrocchia ventimila paisà emigrati. Lo zio d’America, ed è proprio il caso di dirlo, voleva che anche il giovane Max si votasse a Dio, e lo mise in un istituto di suore cattoliche. Ma la “fede” del ragazzo era un’altra. E poi le suore amano molto il baseball (Sister Mary Jo Sobieck vi dice qualcosa?) e forse questo lo zio non lo aveva messo in conto. Difatti lo misero a ricucire una palla da baseball scoppiata, ma il ragazzo era svogliato e trovò il tempo solo una domenica. Beccato da un suora, gli viene detto che lavorare di domenica è peccato mortale. Il giovane Max non dormì una notte intera, pensando che per colpa del baseball sarebbe andato all’inferno. Fu così trasferito dai salesiani. Ma – sempre parole del protagonista – gli capitò di “incontrare” una cuginetta e il prete decise di farlo fare ad altri. Cambiò tre scuole, scontrandosi sempre con i ragazzini americani, che aspettavano che i figli degli immigrati italiani, degli ebrei e dei negri uscissero per ultimi per prenderli a pallate di neve o peggio ancora. Per difendersi c’erano solo due opzioni: o la boxe o giocare a baseball, lo sport più amato e rispettato dai ragazzi. Ma per giocare a baseball doveva entrare in una “gang”, ovvero un gruppetto di iniziati, che pian piano avrebbero avuto accesso al magico mondo del baseball subendo una serie di angherie nonnistiche, come accade alle reclute dell’esercito. E così il nostro eroe iniziò a conoscere questo nuovo e affascinante sport.

Dopo la Prima Guerra Mondiale la madre di Max decise di tornare in Italia e la famiglia si trasferì a Torino. Si dice che per tutto il viaggio Max lo abbia fatto con un guantone in una mano e la pallina nell’altra. A Torino però nessun ragazzo aveva sentito parlare di questo “beisbol” e a fatica il ragazzino mise insieme un gruppetto di ragazzi. Era il 1919. Poi, improvvisamente, tornarono in America. Fecero ritorno in Italia solo nel 1923. Max andò a cercare gli stessi compagni di quattro anni prima e riuscì a mettere su un discreto gruppetto di pionierini in Val San Martino, a Torino. In questa prima mitica squadretta di baseball, vi erano, come nelle favole di Gianni Rodari, un baroncino e uno svizzero. Ma non fu tutto, perché Ott riuscì a reclutare anche il primo “oriundo”: un ragazzino italiano figlio di immigrati a San Francisco, in vacanza in Italia. Max lo aveva sentito suonare il jazz col sassofono, così lo aveva invitato a vendere lo strumento e a entrare nella squadretta di baseball. Si sarebbe divertito di più. Era piccolo Max, ma già mostrava grande senso organizzativo, e furbizia da vendere.

Nel 1945, dopo numerosi altri viaggi avanti e indietro, è di nuovo in Italia, a Milano, come impiegato della Commissione Alleata Americana. Vide dei ragazzi che giocavano a softball, ma gli americani giocavano solo a baseball. Inizia qui una strana guerra personale di Ott contro il softball. Iniziò a suggerire a tutti i giocatori italiani di softball di convertirsi al baseball, il gioco-padre, ma a Roma e dintorni si giocava solo a softball. Era dura questa battaglia di indottrinamento. Si pronunciò addirittura il tenente Fasano, il quale arrivò da Roma a Milano affinchè le parole di Ott non fossero ascoltate: “Questo gioco non s’ha da fare!”. Insomma, chissà perché, ma gli italiani dovevano giocare solo a softball.

Ma Ott non demorde. Nel 1947 andò dal Presidente del Leone XIII, dove studiava suo figlio Riccardo, e dove era nata una squadra di baseball, appunto la “Leone XIII”, ma era una squadra di baseball strana, perché, visto che si giocava solo a softball, era una squadra di baseball che non voleva giocare a softball. Sembra la trama di un film muto surrealista di Buster Keaton, ma è la verità. Allora il Presidente scrisse una lettera in latino (sic!) al Preside della Fordham University di New York, il quale gentilmente inviò sacchi di palline, guantoni, maschere, mazze … un ben di Dio che i ragazzi della Leone XIII usarono finalmente per giocare da squadra di baseball che gioca a baseball.

I ragazzi andarono tutti attrezzati al campo Piranesi, ma c’era troppa nebbia, era inverno a Milano e al primo lancio la palla si perse. Non fu più trovata. I ragazzi si scoraggiarono: se questo era il baseball era meglio lasciar stare. Forse non è un gioco per italiani, anzi, per milanesi. La nebbia è nemica del baseball: lo disse anche Franco Nebbia.

Ma Ott non mollava. Altro che nebbia. Durante l’inverno radunò tutti i giocatori di softball milanesi che riuscì a trovare e li portò al Caffè dello Sport, in piazza Duomo. Una serie di accanite riunioni. Si parlava, si discuteva, si litigava … finchè non li cacciavano via, a notte fonda, quando il bar chiudeva. “I matti americani del batti e corri!” dicevano. Poi, come detto, arrivò Fasano da Roma in pompa bagna, a cercare di convincere tutti dal desistere. Il tenente tenne una riunione a San Sepolcro, dove ovviamente Max non era stato invitato. Ma lui, da vecchia volpe, ci andò lo stesso, nascondendosi dietro i banchi dell’ultima fila. La motivazione di Fasano era semplice: l’esercito aveva ricevuto una grossa fornitura di materiale da softball, che non poteva essere sprecata. In tempi duri non si butta nulla. Ma il “tenente resistente” non aveva considerato la passione che muoveva Max Ott.

Max si impuntò e nel Marzo del 1948, con i delegati del Milano Softball Club, i Little Yankees, Il Gonzaga, il Leone XIII … e gli altri, si riunì nella casa spaziosa di Ruggero Rossi, amico in comune, intorno a un ampio tavolo rotondo, dove, trascorse ore e ore, e sudate discussioni, finalmente, alle tre del mattino … nacque la LIB (Lega Italiana Baseball). Poi si andò a rettificare lo statuto da un notaio, il dr. Meneghini. In seguito, scherzando, lo stesso Ott ammise che il baseball in Italia era nato solo perché quel giorno il sig. Rossi, non era in casa. Insomma, il baseball era nato grazie ad una occupazione semi-clandestina.

Giunse dunque l’ora matura della prima partita ufficiale, in programma allo Stadio Giurati di Milano il 27 Giugno 1948, una data da ricordare.

Max fece tutto da solo. Avvisò dell’evento La Gazzetta dello Sport, ma il Comune disse che avrebbe potuto (chissà perché – era in atto una congiura?) esporre le locandine solo il giorno dopo l’evento. Inaudito. Tutto inutile. Allora fu Ott e alcuni amici e giocatori a girarsi la città intera e affiggere le locandine pubblicitarie. Una favola, una vera favola sportiva. Un entusiasmo da far scendere le lacrime.

Allo stadio si presentarono duemila meneghini, più curiosi che entusiasti; comunque un grande successo. Il playball scattava alle 17:00 e il primo lancio fu affidato al Console Americano – e chi meglio di lui – Deyman. Ovviamente l’illustre personalità era stata avvertita preventivamente dal solito nostro eroe dei due mondi. Tutte le squadre milanesi di softball esistenti si divisero in due neonate squadre di baseball: il Milano BC contro gli Yankees B.C. Il punteggio di 21 pari (sic!), non proprio usuale nel baseball professionistico, fu interrotto alle ore 18, salomonicamente. Quindi si giocò appena un’oretta: 42 punti totali in un’ora di gioco. Sembrava una partita “fantozziana” e verrebbe ancor più da ridere se si pensa che, essendo un evento di ispirazione americana, il direttore della Coca Cola Italia, Fracchia, offrì Coca Cola gratis a tutti!

Dopo questo, forse inaspettato successo, Ott si trovò di fronte a un bivio. Se prima si poteva giocare a softball contro squadre da tutta Italia, ora i milanesi “traditori” potevano giocare a baseball solo tra di loro. Ma ecco che venne in aiuto la provvidenza, sotto forma della carta stampata. “E’ la stampa, bellezza!” sentenzia Humphrey Bogart nel meraviglioso L’ultima minaccia, ed è proprio il caso di ripeterlo. Un giorno “Milano Sera” pubblica una pagina intera dedicata al noir che teneva banco tra il baseball e il softball e l’ “imputato”, Mr. Ott Max, venne convocato immediatamente dalla Commissione Interna della FIAT. Puzza di bruciato.

Ma tutto andò bene, perché non c’era nulla da temere, anzi, fu l’avvio del baseball anche a Torino. Nacque dunque il Torino B.C. e il baseball nordico aveva trovato un’altra città alleata. Ott fu contento di andare ad allenare nel capoluogo della sua regione, diffondendo il nuovo vangelo sportivo, quello che tanti anni prima, da bambino, aveva cercato di insegnare agli amichetti di Val San Martino.

Poi fu la volta di Alessandria.

Poi di Bologna … sempre in barba al povero tenente Fasano. A Bologna fu particolarmente difficile soppiantare il softball, fino a quando Ott non convinse il mitico Van Zandt, una specie di olandese volante, a battere una palla da baseball. La palla volò via. Sparita. Nel nulla. Era la seconda pallina della vicenda privata di Ott che spariva, dopo quella del nebbione milanese. Ma dal pubblico presente – era ovviamente una partita di softball – si alzò un grido di meraviglia: “Oh baseball! Baseball! Vogliano il baseball!!!”. Una pallina persa, ma una vittoria riportata. Non è forse vero che una pallina perduta equivale a un lunghissimo fuoricampo? I tempi dunque si rincorrono, si accavallano e si anticipano a vicenda. Lo zio Max lo sapeva bene. Bologna era conquistata, ormai terra di baseball, come tutta l’Emilia, la Louisiana italiana. Fu proprio il Bologna infatti, superando l’Ambrosiana in uno spareggio, a vincere il primo campionato italiano – più che italiano, “padano” – di baseball, denominato LIB nel 1948

Nel 1949, la febbre del batti&corri arrivò a Modena, Verona, Monza, Fossano, Trieste e Firenze, la quale si aggiudicò il secondo campionato nazionale LIB. Ormai Ott poteva contare su 18 formazioni e avrebbe, a spalle coperte, potuto tentare di “bussare” ai sudisti, ai Romani, ai Nettunesi. Infatti anche Roma e Nettuno iniziarono a giocare a baseball nel 1949. A questo punto c’era solo una cosa da fare e al più presto: creare una nuova, unica Federazione Nazionale, e coinvolgere il grande Bruno Beneck, l’altro padre del nostro baseball.

I delegati del nord, milanesi in primis, e i delegati del sud, romani e nettunesi in primis, decisero di incontrarsi sotto i portici di Bologna. Giunti sul posto, onde evitare che il congresso finisse in una mega rissa, Beneck ebbe una grade idea. Disse semplicemente: “Perché non andiamo a bere tutti insieme?”. Non si parlò di baseball. Ma solo di vino. Una cosa che accomuna le passioni di tutti gli italiani. E il grande Bruno non sbagliò mica.

Dopo essersi “rallegrati” si diedero appuntamento in una nuova sede, a cuor sereno.

Era la sera del 29 Gennaio 1950 quando la LIB (Lega Italiana Baseball) di Ott si fuse con la FIBS (Federazione Italiana Baseball Softball) di Beneck. Nacque così la FIPAB (Federazione Italiana PallaBase). Le squadre di softball del sud, Roma in primis, erano maggiori di quelle di baseball del nord, ed ebbero la maggioranza. Il primo Presidente della neonata Federazione infatti fu il Principe Steno Borghese, molto legato a Nettuno. Secondo Ott, la geniale idea di eleggere Borghese fu di Beneck, perché “un Principe è sempre un Principe”, basta vedere Totò. Un Principe come primo presidente fa tutto un altro effetto.

E come dargli torto?

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Nel corso della sua incessante attività giornalista, Max Ott è stato corrispondente in Italia per il New York Times, nonché collaboratore con La Gazzetta dello Sport. Il suo pionieristico amore per il baseball, la sua dedizione, temperanza e lungimiranza, lo collocano tra gli eroi che più di tutti noi ricordiamo e amiamo.

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