Ricci Fernando
Nato il 4 agosto 1968, ricevitore, ha esordito con la maglia del Nettuno nel 1986 contro il San Marino. Resta con la squadra della sua città fino al 1995 vincendo 2 Coppe Ceb, la Coppa Campioni del 1991 e due scudetti, quello del 1990 e quello del 1993 dove batte iil fuoricampo decisivo nella “bella” di gara 5 a Rimini, vincendo anche il titolo di MVP della serie. Dal 1996 va all’Anzio dove resta 8 anni, i primi quattro in A2, gli ultimi nella massima serie. Dal 2004 torna a Nettuno dove concluderà la carriera nel 2006. Finita l’attività agonistica si cimenta subito come coach ed allenatore chiudendo la selezione del Lazio per ben due volte alle Little League negli States. Nel 2017 è nello staff del Nettuno Baseball City mentre dal 2018 è al Nettuno 2
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FERNANDO RICCI:
“HO DATO TUTTO PER IL NETTUNO, LA MAGLIA, I TIFOSI!”
Una intervista di Ignazio Gori
(Maggio 2020)
Tigre! Tigre! Divampante fulgore
nelle foreste della notte,
quale fu l’immortale mano o l’occhio
ch’ebbe la forza di formare
la tua agghiacciante simmetria?
In quali abissi o in quali cieli
accese il fuoco dei tuoi occhi?
Sopra quali ali osa slanciarsi?
E quale mano afferra il fuoco?
(William Blake, trad. Giuseppe Ungaretti)
Iniziamo da un fatto curioso, perché ti chiamano “Toro”. Pensavo che solo Alberto Rinaldi fosse soprannominato così?
FR. Questo nomignolo nacque durante la Coppa dei Campioni del 1991, giocata a Parigi. Ricordo che stavamo perdendo con una squadra debole, che avevamo due corridori in base e serviva un guizzo vincente. Io in panchina scalpitavo e qualcuno mi disse, forse proprio Giampiero Faraone: “Fermando, perché non entri a testa bassa e come un toro non dai una cornata a questa partita!”. E così fu. Faraone mi conosceva bene, sapeva le mie potenzialità istintive. Entrai e risolsi la partita. Poi vincemmo quell’edizione della Coppa dei Campioni. Una grande soddisfazione.
È in corso secondo te un declino del baseball italiano?
FR. Non entro nel merito del nostro movimento, ma posso dire che il declino nasce esclusivamente quando le vecchie generazioni dei campioni non riescono a passare il testimone alle nuove, o magari sono impedite nel farlo. Io ho avuto grandi maestri, Mirra, Faraone … a cavallo di due grandi generazioni di baseball nettunese e sono stato fortunato, visto che ho potuto attingere dai grandissimi. Ho iniziato a giocare giovanissimo, dalla categoria più piccola, gli Esordienti … fino alla prima squadra. Una carriera d’orgoglio e attaccamento a quella maglia che fin da ragazzino sognavo di indossare.
Dalle tue parole traspare molta passione …
FR. Sono sempre stato un tipo adrenalinico, non ho mai chinato il capo davanti agli avversari, mai risposto “signorsì” a qualcuno, sono stato sempre schietto e verace. Sì, ho una passione autentica per il baseball, una passione che dopo il ritiro mi ha portato ad insegnare i fondamentali ai ragazzi. Mi piace molto insegnare a giovani volenterosi di affacciarsi nel mondo del baseball, ragazzi che abbiamo vera voglia e passione, a prescindere dal compenso, dalla carriera … I ragazzi devono tornare all’entusiasmo dell’imparare dai grandi. Purtroppo, anche tra i giovani, mi è capitato di vedere tanta svogliatezza, e questo mi è dispiaciuto a livello intimo e personale. È un pericoloso sintomo dilagante, che denota un mancato attaccamento alla maglia, magari come ce l’avevo io e i miei compagni. Bisognerebbe dunque insegnare anche una “morale” sportiva, quella magia che tiene legato un giocatore alla squadra e indirettamente alla città, ai suoi tifosi, a chi crede in un obiettivo comune.
Hai mai allenato?
FR. Sì, ho allenato le varie categorie giovanili dell’Anzio, per quattro anni, per poi passare alle giovanili del Nettuno, e ancora le categorie seniores di A1 e A2. Poi ho avuto anche l’esperienza da aiuto allenatore per il Nettuno Baseball City nel 2017. Debbo dire che preferisco insegnare ai giovani, avviarli e formarli tecnicamente. Non mi piace la “politica” che sta dietro al movimento, alle società … io sono un entusiasta del gioco. Sono un “animale” del diamante. Vado molto orgoglioso delle mie esperienze di allenatore del “Lazio”, quando abbiamo vinto il torneo europeo in Polonia, un torneo duro, dove si perdeva sempre. Un traguardo che ci ha spalancato le esperienze negli Stati Uniti: nel 2010, alla Senior League di Bangor, Maine, e nel 2012 nella Junior League che si è disputata a Taylor, nel Michigan. Chiunque conosca il baseball sa quanto siano importanti per il baseball giovanile italiano questi risultati, i quelle Little, Junior e Senior League passano il fiore dei talenti del baseball internazionale. Sono stato fiero dei miei ragazzi.
Dicevamo della tua militanza nelle giovanili del Nettuno, del tuo sogno che avanzava verso la prima squadra …
FR. Ringrazio i miei maestri, i miei compagni per le belle vittorie, gli scudetti, ma anche di dure sconfitte che aiutano sempre a crescere.
Hai giocato ricevitore, cosa ne pensi degli attuali catcher italiani?
FR. Sicuramente, il migliore catcher che abbiamo è Alberto Mineo, che lotta nelle Minors e che meriterebbe di salire, anche se la concorrenza in Mlb è spietata. Ha un buon braccio, capacità di bloccare e anche in attacco è abbastanza continuo. Ma permettimi di spendere una menzione per Simone Albanese, mio nipote, di cui ne ho modestamente seguito la crescita tecnica. Posso dire di avergli tramesso io il “morbo del baseball”. Simone è un ottimo elemento. A San Marino ha vinto diversi scudetti e Coppe dei Campioni, più un titolo europeo con la Nazionale; inoltre molte volte è stato eletto “Miglior Catcher Italiano”. Spesso si preferisce dare delle occasioni a oriundi che vengono a giocare le singole competizioni internazionali a gettone, e non si guarda al panorama dei nostri talenti. La mia non è una critica, gli oriundi ci sono sempre stati, ma non dovrebbe essere una tendenza. Questo per la nazionale azzurra è un’arma a doppio taglio.
A proposito di Nazionale, tu non hai mai avuto l’onore di essere convocato in azzurro …
FR. Vero, sono gli sviluppi della carriera, della vita … la mia unica chiamata fu quella con la Nazionale U23 per disputare uno stage a Cuba, nel 1991, e poi ricordo gli Europei Juniores del 1986, quando arrivammo secondi. Riguardo alla prima squadra azzurra non ho esperienze. Ma questo non ha cambiato il mio entusiasmo nel giocare, il mio essere un vero agonista. Credo di aver dimostrato carattere, quando ad esempio, a soli ventidue anni giocai gara 7 di finale scudetto a Rimini, ricevendo le “bordate” del grande Bob Galasso, il più grande lanciatore con cui abbia mai giocato. O ancora nella finale del 1993, quando fui eletto MVP della serie. Probabilmente il più forte catcher che abbia mai visto è stato Elio Gambuti, un campione, ma non amo quantificare il talento e sono contento delle mie vittorie, tutte sudate.
Gli scudetti del 1990, del 1993, la Coppa dei Campioni del 1991 … grandi gioie per i tifosi nettunesi …
FR. Per chi come me, e altri miei coetanei, tifava per questi colori sin da piccolo, indossare la maglia della prima squadra, vincere, essere decisivo, è un sogno che si avvera. Io non mi stanco di ripeterlo: ho fatto tutto per il Nettuno, ci sono stati anni di sacrificio, anche lavorativo, ma non mi pento di nulla. La mia vita sportiva è stata governata dal cuore e la mia famiglia mi ha sempre sostenuto. Poi, per motivo di lavoro, ho giocato anche otto anni con l’Anzio, quattro in A1 e quattro in A2, divenendo il capitano di questa squadra. Ricordo sempre con affetto i miei ex compagni di squadra ad Anzio. Devo dire che ho indossato quella maglia con onore, prima del ritiro a 38 anni.
Mica pochi … anche se l’importante è l’intensità, i ricordi lasciati, il valore delle prestazioni, queste cose non si cancellano.
FR. Sono stato fortunato a giocare con Ruggero Bagialemani, Trinci, Alberto D’Auria, grande seconda base, e poi Taglienti, Masin … questi erano campioni assoluti, che davano tutto sul diamante. Io ho attinto da tutti, avevamo un grande gruppo, unito su più fronti. A detta di Faraone – e lui se ne intende – la Scac Nettuno del 1990, è la più forte formazione nettunese di sempre. Se non ci fossero state le grandi squadre del Parma, quelle di Poma, di Fochi o del Rimini di Beppe Carelli, di Ceccaroli, di Cabalisti … magari avremmo vinto di più, ma non bisogna recriminare quando dai tutto, e noi per Nettuno abbiamo dato tutto.
E tra gli stranieri invece, chi ricordi con più affetto?
FR. Bob Galasso su tutti, e poi Toni Lonero, Jeff Ransom, chiamato lo “Sceriffo”, che era nella squadra scudettata del ’90. Jeff era di base catcher, ma per via del braccio potente veniva impiegato anche come esterno e poi non si tirava indietro nemmeno se doveva fare da rilievo sul monte. Poi ricordo Lenny Randle. È stato il primo giocatore con esperienza in Mlb a giocare in Italia, venne nel 1983. Io ero giovane, facevo di tutto per andarlo a vedere, agli allenamenti, alle partite, c’era gente che lo aspettava, scintille di entusiasmo. Non solo era un campione, ma anche uno showman, attirava il pubblico, cantava, credo abbia inciso anche un disco …
Vero! Per gli appassionati, il brano si chiama “I’m a Ballplayer” (trad. “Sono un giocatore”) ed è stato inciso da Randle col suo gruppo Lenny Randle & the Ballplayes. Uno spasso.
FR. Sì, uno spasso. Una volta mi fece vedere una foto con il presidente americano Richard Nixon; credo perché avesse giocato con i Washington Senators. Insomma, davvero un gran personaggio. Ma devo dire che se mi parli di affetto devo nominare Jessie Reid. Grande slugger, forse più forte di Lenny in battuta e non ha mai avuto una reale chance di giocare in Major. Strani scherzi del destino. Jessie ci ha aiutato non poco a vincere lo scudetto del 1993. Fece una stagione pazzesca, e ricordo che in finale, nella decisiva gara 5, quando feci un fuoricampo da tre punti, mi si avvicinò e mi disse: “Ora l’allievo ha superato il maestro!”. Io lo guardai perplesso.
Perché ti disse questo?
FR. Perché mi ero allenato moltissimo con lui quell’anno in battuta e in quel momento topico se ne ricordò. Parole che mi riempiono ancora di orgoglio. Forse non molti sanno, che oltre a tanto Triplo A e Messico e Giappone, a Jessie vennero concessi solo tre turni in battuta nella Mlb. Solo tre turni, pensate! Beccò due K, tra cui uno da Nolan Ryan (forse il più grande lanciatore di sempre), ma fece anche un fuoricampo. Nel 1994, era il giorno di Natale, lo andai a trovare nella sua casa di Los Angeles, c’erano 25 gradi. Quando sentì la mia voce al citofono, quasi scoppiò di gioia. Mi raccontò che aveva avuto un grave infortunio al ginocchio e che non poteva giocare in America. Allora lo convinsi a tornare a Nettuno l’anno successivo. E lui mi diede retta, tornò con noi nel campionato del ‘95.
Restando in America, perché tifi per i Detroit Tigers?
FR. Quando ero giovane vedevo la celebre serie tv Magnum P.I. Il protagonista era Tom Selleck, il quale indossava sempre un cappellino dei Tigers. Selleck è di Detroit, un accanito tifoso dei Tigers. A me piaceva quella squadra, quel nome, “DETROIT TIGERS”, lo leggevo sempre sulla rivista “TuttoBaseball”, mi ispirava forza, e divenni tifoso. Nel 2012 sono stato anche a Detroit a vedere un loro incontro. Giocarono contro i Baltimore Orioles. Il partente per i Tigers era Justin Verlander. Oltre a quest’ultimo, la rotazione dei partenti di quella squadra era a dir poco pazzesca: Scherzer, Anibal Sanchez, Rick Porcello … E Poi c’era Miguel Cabrera. Come diavolo hanno fatto a non vincere il campionato?
Qual è la cosa che più di tutto ti preme far sapere di te?
FR. Che sono stato leale con me stesso e con gli altri, cresciuto con la passione sincera che mi hanno saputo trasmettere campioni come Giorgio Costantini, Tony Lonero, che mi allenato da ragazzo, o Bruno Laurenzi che è stato il mio maestro di baseball … Crescendo con gente così il baseball non può che diventare un vero e proprio stile di vita. Perché il baseball, prima di tutto, va INSEGNATO! Poi, in un secondo momento, si impara a vincere sul campo, con lealtà e rispetto. I titoli si vincono sul campo. Non si vendono. Non si comprano. Bisogna sudarseli, punto. È questo che vorrei far sapere di me ai giovani che vogliono iniziare a giocare. Vorrei in ultimo tributare e ringraziare due persone speciali, cui devo molto: Pasquale Albanese, ex grande arbitro, venuto a mancare alcuni anni fa e che per me è stato come un fratello. E in ultimo mio padre, Antonio Ricci, più volte campione d’Italia con l’Algida Nettuno negli anni ’50.