Società

Firenze


Il “Firenze” deve la sua vita a due studenti, Enzo Strina e Giovanni Ferrara, e a un impiegato, Dino Palmieri. I tre avevano visto nel 1946, il film “L’idolo delle folle” (in cui, accanto a Gary Cooper nei panni di Lou Gerhig, compare il grande Babe Ruth) rimanendo colpiti dal tifo degli americani per il baseball. E fu appunto nello scambio delle loro impressioni che nacque l’idea di imparare il gioco. Per far questo occorrevano però guantoni, mazze e palle, aggeggi che i nostri negozi di articoli sportivi allora non vendevano (e che pochi anche oggi sono in grado di fornire). Palmieri, Ferrara e Strina non si arresero di fronte alla prima difficoltà e si diedero a rovistare sulle bancarelle di “Sciangai” (un vecchio mercato fiorentino) trovando il minimo indispensabile e prezzi irrisori (bei tempi!). I palleggi d’assaggio si svolsero sul Campo di Marte, preoccupando i passanti, uno dei quali venne colpito alla testa, ed attirando l’attenzione dei vigili urbani che – assai più burberi dei loro colleghi bolognesi – proibirono formalmente simile esercizio giudicato “pericoloso per la pubblica incolumità”.

Ma i nostri fecero orecchie da mercante a continuarono imperterriti, catecatizzando una decina di neofiti ( Carrozzi, De Pasquale, Cristin, Fattori, ecc.) cosi che poterono formarsi due squadre le quali presero i nomi di “Pirati” l’una, e “Baseball Firenze” l’altra. I “Pirati”, anche quando crebbero di numero, tenendo fede a quel che di anarchico insito nel loro appellativo, non indissero mai regolari elezioni sociali mentre gli altri, presa la cosa con serietà e coscienza, si riunirono in una stanza del Tribunale, gentilmente concessa (badando bene di parlare sottovoce per non disturbare), votarono democraticamente ed elessero presidente Ferrara, manager Strina e segretario – cassiere Palmieri.

Un giorno i giornali si accorsero che anche in Italia c’era chi si dedicava al baseball e parlarono delle squadre che a Milano avrebbero sostenuto le prime partite. Tutto il “Firenze” fece le valigie e si precipitò nella capitale lombarda. L’incontro tra “Leo” (la squadra dell’Istituto Leone XIII in cui giocava Dick Ott) ed il “Milano” li demoralizzò (“Sono troppo bravi, ma non arriveremo mai a tanto” pensarono) e quello tra lo stesso “Milano” ed il “Bologna” li buttò addirittura a terra. Ma si riebbero presto ed il 5 settembre “Fiorentini” e “Pirati” giocarono allo stadio di Prato (dopo una sfilata… di cani) qualche “inning” dimostrativo tra le matte risate di un pubblico non pagante.

La faccenda si metteva piuttosto maluccio ed i due club, per meglio far fronte alla nuova ondata di scoraggiamento, si fusero tre giorni dopo l’ingloriosa sortita. Ma ecco che, proprio nell’infuriare della burrasca, Strina riesce ad accaparrarsi attraverso il Consolato Americano, due autentici giocatori di baseball, mr. Lawrence Burks e Van Zandt.

Dal pessimismo all’euforia: Burks, dopo aver visto in allenamento le “casacche del giglio” si dichiarava disposto ad aiutarle convinto che avessero tutti i numeri per vincere il campionato. Niente di meno! Ferrara e compagni non stavano più nella pelle e seguivano le lezioni dell’americano con un tal fervore che il latino, l’italiano e la matematica finirono al ruolo di materie secondarie (ragion per cui il “presidente” venne mandato in esilio a Torino per volere della madre la quale, rassegnata, lo richiamò poi in patria quando si accorse che il figlio, incontrato l’ing. Balocco, si era dato anima e corpo al baseball anche in Piemonte).

Burks, Carrozzi, Palmieri, Fattori, Manno (Baci), De Pasquale, Cristin, Maggio e Fiasconi. Dopo le prime vittorie si ebbero le nuove elezioni con rimpasto del gabinetto: presidente Alberto Gazzo (ci voleva ormai una persona di una certa età al timone), vicepresidente il solito Ferrara, segretario Romanelli, cassiere Palmieri, manager ancora Strina ed allenatore Burks. Quest’ultimo come è facile immaginare era diventato l’idolo di tutti ed in tutti cominciavano a nascere crisi di coscienza. Come potevano pretendere che lo yankee continuasse a giocare per i loro begli occhi con moglie e tre figli a carico? Ma, d’altra parte, come ricompensarlo se mancavano persino i fondi per le trasferte? Fu lo stesso Burks che tagliò la testa a toro rassicurandoli: “Voglio troppo bene a voi e alla squadra per lasciarvi, costi quel che costi – (tra l’altro, un vantaggioso contratto offertogli dalla Dunham) – Animo ragazzi vedremo di arrangiarci!”. L’allenatore, da qual momento avrebbe potuto chiedere qualunque sforzo, ogni sacrificio ai giocatori: per lui l’avrebbero fatto. Forte di questa disciplina, il “Firenze” vinse il Campionato battendo nell’ultima partita (9 a 6) proprio il “Milano” che tanto li aveva impressionati due anni prima.

(Per racimolare i soldi per il viaggio, tutti i soci del club avevano fatto incetta, nelle rispettive case, di stracci e di carta venduti poi sul mercato). Una volta conquistato il titolo, i campioni furono invitati in Spagna per il cinquantenario del F. C. Barcellona. La trasferta di tramutò in una vera e propria avventura. Basti dire che, bloccati in Francia dallo sciopero dei ferrovieri, si videro costretti a valicare i Pirenei “pedibus calcantibus” in due giorni ed a giocare poi senza riposarsi. Morale due sconfitte (12-1 e 6-2).

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